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      – È da tanto tempo che la servo, signore – rispose Peggotty; – dovrei saperlo.
      – Vero – egli rispose. – Ma m’è parso di udirvi, venendo su, chiamarla con un nome che non è suo. Sappiate che essa ha preso il mio. Volete rammentarvene?
      Peggotty mi volse delle occhiate impacciate, e con un inchino uscì dalla camera senza rispondere; comprendendo, immagino, che doveva andarsene, e non avendo alcuna ragione per rimanere. Quando noi due fummo soli, egli chiuse la porta, e sedendosi e tenendomi ritto innanzi a lui, mi guardò fisso negli occhi. Anche i miei guardavano lui fisso. Mentre ricordo quel nostro stare a faccia a faccia, mi sembra di sentir il cuore martellarmi rapido e forte.
      – Davide – egli disse, stringendo insieme le labbra e assottigliandole – se ho un cavallo o un cane ostinato, che credi che io faccia?
      – Non so.
      – Lo batto.
      Avevo risposto con un fil di voce, ma sentivo ora, nel mio silenzio, che mi mancava il respiro.
      – Lo faccio staffilare e domare. Io mi dico: «Debbo soggiogarlo». E se dovesse costargli tutto il sangue che ha, lo soggiogherei. Che hai sulla faccia?
      – Mi son insudiciato – dissi. Egli sapeva, come lo sapevo io, ch’eran tracce di lagrime. Ma se mi avesse fatto venti volte la stessa domanda, ogni volta accompagnandola con venti colpi, credo che il mio cuore infantile sarebbe scoppiato, ma non glielo avrebbe detto.
      – Così piccolo come sei, tu hai molta intelligenza – egli disse con un grave sorriso che era tutto suo particolare; – e m’hai capito benissimo, ne son certo.


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





Peggotty