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      Le sapevo bene – forse meglio di quanto egli credesse, riguardo alla mia povera madre – e gli ubbidii alla lettera. Non mi rifugiai più nella mia camera; non andai più da Peggotty; ma me ne stetti tediato nel salotto un giorno dopo l’altro, in attesa della sera e dell’ora d’andare a letto.
      A quale tremendo sforzo non fui assoggettato, sedendo nello stesso atteggiamento per ore ed ore, timoroso di muovere un braccio o una gamba, per non farmi sgridare per la mia irrequietezza dalla signorina Murdstone (che lo faceva anche per meno), e timoroso perfino di guardare in giro per non accendere in lei un’occhiata di malevolenza o di disamina che trovasse una nuova ragione di riprensione nella mia! Che intollerabile noia sedere ascoltando il tic-tac dell’orologio, guardando le lucenti perline d’acciaio che infilava la signorina Murdstone, domandandomi se si sarebbe una buona volta maritata, e se mai, a quale specie d’uomo infelicissimo, contando i reparti nella modanatura della cappa del camino; ed errando lontano, con gli occhi verso il soffitto, fra le volute e i disegni bizzarri della carta sulla parete!
      Che passeggiate facevo, andando solitario per fangosi sentieri l’inverno, col cattivo tempo, portandomi da per tutto appresso quel salotto, e con esso il signore e la signorina Murdstone: un carico mostruoso che dovevo pur sostenere, un incubo diurno al quale non era possibile sottrarsi, un peso che m’ingombrava lo spirito, e l’ottundeva!
      Che pasti facevo silenzioso e imbarazzato, sentendo sempre che v’era una forchetta di troppo, la mia; un appetito di troppo, il mio; una sedia di troppo, la mia; qualcuno di troppo, io!


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





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