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      XIII.
      LA VITA PER CONTO MIO
     
      Credo mi balenasse la folle idea, quando rinunziai all’inseguimento del giovane carrettiere e presi la via di Greenwich, di correre sempre fino a Dover. Ma presto moderai il passo, e mi fermai sulla strada di Kent su una spianata con un po’ d’acqua innanzi e nel mezzo una brutta e grossa statua, che soffiava in una conchiglia asciutta. Mi sedei sullo scalino d’una porta, assolutamente spossato dallo sforzo compiuto, e con appena il fiato da piangere la perdita del baule e della mezza ghinea. Era già buio; e sentii, stando a sedere, gli orologi sonare le dieci.
      Fortunatamente s’era d’estate e con un tempo bellissimo. Dopo aver ripigliato fiato, ed essermi liberato da una sensazione di soffocamento in gola, m’alzai e mi rimisi in cammino. Nonostante la mia angoscia, non pensai neppure lontanamente a tornare indietro: non ci avrei pensato neppure se sulla strada di Kent avesse cominciato a nevicare come su una montagna della Svizzera.
      Ma il pensiero d’avere soltanto sei soldi in tasca (veramente era una strana combinazione possedere ancora sei soldi una sera di sabato!) non cessava dal turbarmi profondamente. Immaginai che fra un paio di giorni un paragrafetto di giornale avrebbe annunziato che ero stato rinvenuto morto sotto qualche siepe; e continuavo a trascinarmi penosamente innanzi, come le gambe mi permettevano, allorché m’avvenne di passare davanti a una botteguccia, sulla quale era scritto che vi si compravano abiti usati da signori e signore, e che si pagavano profumatamente cenci, ossa e cianfrusaglie inservibili d’ogni specie.


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





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