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      Era viltà ed egoismo, e mi torturavo a dirmelo, pensare tanto alla mia miseria; ma sentivo tanta devozione per Dora che non potevo non farlo. Sapevo che commettevo una bassezza pensando più a me che a mia zia; ma il fatto sta che l’egoismo era inseparabile da Dora, e non potevo metter Dora da parte per nessun’altra creatura mortale. Come fui straordinariamente infelice quella notte!
      Quanto al sonno, feci dei sogni di povertà e di miseria in tutte le forme, e mi parve di sognare senza aver prima compiuto la formalità di addormentarmi. Ora, vestito di cenci, volevo che Dora andasse vendendo i fiammiferi a sei mazzetti per un soldo; ora mi trovavo nello studio, con le scarpe e la sola camicia da notte, mentre il signor Spenlow mi rimproverava aspramente per essermi presentato innanzi ai clienti in quell’aerea acconciatura; ora, affamato, raccoglievo le briciole che cascavano dalla ciambella quotidiana del signor. Tiffey, che ne mangiava regolarmente una allo scoccar del tocco all’orologio di San Paolo; ora lottavo disperatamente per aver la licenza ufficiale di sposar Dora, non possedendo altro da dare in compenso che un vecchio guanto di Uriah Heep, che la Corte del Doctor’s Commons rifiutava sdegnosamente; finalmente, più o meno consapevole del luogo ove mi trovavo, ballonzolavo continuamente come una nave in pericolo in un oceano di lenzuola e di coltri.
      Neppure mia zia dormiva, perché la sentii spesso camminare su e giù per la stanza. Due o tre volte durante la notte, avviluppata in un lungo accappatoio di flanella che la faceva parere d’un’altezza smisurata, apparve nella mia stanza come un’anima sofferente, accanto al canapè che mi faceva da letto.


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





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