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      Nel momento di cui parlo ero ammogliato, credo, da circa un anno e mezzo. Dopo un bel numero di esperimenti, avevamo rinunziato a dirigere noi la casa, come a un lavoro penoso. La casa si dirigeva da sé, e noi tenevamo un servitorello. La principale funzione di questo nostro salariato era di litigare con la cuoca; e a questo riguardo era un perfetto Whittington, senza il gatto, o la più lontana speranza di salire alla dignità di primo magistrato londinese.
      Mi pare che egli vivesse in una grandine di coperchi di casseruole. Tutta la sua vita era una zuffa. Chiamava aiuto nelle ore meno acconce – come quando avevamo gente a desinare o c’era un piccolo ricevimento d’amici la sera – e usciva a precipizio dalla cucina inseguito da ferrei proiettili. Sentivamo la necessità di sbarazzarci di lui, ma egli c’era molto affezionato, e non se ne voleva andare. Era un ragazzo piagnucoloso, e cacciava lamenti così strazianti quando s’accennava alla cessazione delle nostre relazioni, che eravamo obbligati a tenercelo. Non aveva più la madre... né alcuna specie di parente che mi fosse stato possibile di scoprire, tranne una sorella, che s’era imbarcata per l’America nel momento che lo avevamo raccolto dalle sue mani; e dovevamo tenercelo come un bambino scemo che ci fosse nato in casa. Egli aveva un’acuta percezione della propria disgraziata condizione, e con la manica della giacca si sfregava continuamente gli occhi, o si chinava per soffiarsi il naso nell’estremo cantuccio d’un fazzolettino, che non soleva mai tirare completamente di tasca, per farne il più che possibile economia e nasconderlo.


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David Copperfield
di Charles Dickens
pagine 1261

   





Whittington America