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      Fin qui la narrazione dello storico, la quale però ha bisogno di commento, perchè non convien credere che Archimede si pensasse d'avere con la sua invenzione sovvertite le leggi della natura, tra le quali è che niuna resistenza può essere superata da forza che non sia di quella più potente, imperocchè la natura non può essere superata o defraudata dall'arte.
      Non è malagevole immaginare quale fosse il meccanismo del quale si sarà servito in quella occasione Archimede, poichè noi troviamo che di congegni diversi atti a smuovere e tirar pesi gli viene attribuita l'invenzione, escludendo pure quella del caristion, intorno al quale si agitarono in questi ultimi tempi così dotte controversie: sono tra questi l'asse nella ruota e l'argano, la girella mobile e la taglia, chiamata trochlea dai Greci, la combinazione dei quali apparecchi si presta alla cosiddetta moltiplicazione della forza secondo ogni voluta proporzione. E noi crediamo fermamente avesse Galileo in mente la narrazione della maraviglia operata da Archimede nel mettere da solo, ma lentissimamente, in moto la grossa nave, quando dimostrava così luminosamente quali siano le vere utilità che si traggono dalla scienza meccanica e quanto sia falsa la credenza di potere con poca forza muovere ed alzare grandissimi pesi, ingannando in un certo modo la natura. «Allora solamente, scrive egli, si potrà dire essersi superato il naturale instituto, quando la minor forza trasferisse la maggiore resistenza con pari velocità di moto, secondo il quale essa cammina; il che assolutamente affermiamo essere impossibile a farsi con qual si voglia macchina immaginata o che immaginar si possa».


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Archimede
di Antonio Favaro
Formiggini Editore Roma
1923 pagine 63

   





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