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      Gli specchi ustorii di Archimede, e quelli altrettanto celebri di Proclo e di Antemio attirarono siffattamente l'attenzione degli studiosi al tempo del Rinascimento, da indurli ad applicarsi con grande fervore agli studii di catottrica e ad immergersi in tutto ciò che intorno a questo argomento avevano tramandato i greci e gli arabi. Sul finire del secolo decimosesto questi studii vanno assumendo un carattere più positivo, e nel decimosettimo se ne occuparono Galileo ed i più cospicui fra i suoi discepoli e la stessa Accademia del Cimento, senza però pervenire a risultati i quali permettano di asserire con qualche verisimiglianza che Archimede abbia potuto costruirne di tale potenza da raggiungere quell'effetto che Cartesio negò in modo assoluto e che nemmeno la famosa esperienza del Buffon vale a rendere credibile. Verisimile è invece che, riferendosi da un lato avere Archimede scritto fra altro anche sugli specchi ustorii od almeno di catottrica, e dall'altro che, come narra Silio Italico, alcune navi dei romani assedianti Siracusa erano state incendiate, siansi abbinati i due fatti, concorrendo a formare una tradizione la quale non ha storico fondamento.
      Ma ritorniamo alla nostra narrazione.
      Giudicando Marcello che apparecchi di così grande potenza come erano adoperati dai Siracusani non avrebbero potuto danneggiare le navi altro che ad una certa distanza, dispose per un attacco notturno nella speranza che, cacciandosi sotto, potessero gli assalitori, col favor della notte, aver ragione dei nemici senza venir da questi offesi ed impediti, ma il tentativo non ebbe miglior fortuna, chè dal genio di Archimede uscivano sempre nuovi ingegni che da vicino o da lontano proteggevano le mura ed i loro difensori recando al nemico il massimo danno; e tanto, scrive Plutarco, ne erano spaventati i Romani, che «alla vista d'una sottil corda o di una piccola trave che sporgesse dal muro, volgean le spalle e fuggivano gridando essere ivi una qualche macchina mossa a lor danno da Archimede»1. Sicchè, dopo tentativi ripetuti durante ben otto mesi, confessando la propria impotenza di fronte al grande Siracusano, ch'egli chiamava «geometra Briareo», si ritrasse Marcello contentandosi di stringere d'assedio la città alla lontana con la speranza di prenderla per fame.


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Archimede
di Antonio Favaro
Formiggini Editore Roma
1923 pagine 63

   





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