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      Questi risultati trovansi consegnati in alcuni dialoghi stesi in latino e rimasti a lungo inediti; ma forse è poco credibile che in essi, proprio in essi, debba ravvisarsi la materia del suo pubblico insegnamento, il quale con tutta probabilità dovette restar circoscritto entro i confini voluti dalle consuetudini dei tempi. I nuovi veri però non avranno potuto certamente essere enunciati senza incontrare opposizione da parte degli aristotelici imperanti nello Studio e fino allora indiscussi, e questa congiunta con altre circostanze, e prima fra tutte quella dello scarsissimo stipendio, contribuirono a rendergli meno gradito il soggiorno di Pisa, ch'egli pensava ad abbandonare, come è lecito arguirlo dalle pratiche che andava facendo il marchese del Monte per procurargli altrove più degno collocamento. Anche quell'innocente, ma alquanto licenzioso capitolo bernesco, col quale Galileo mise in ridicolo la prammatica che costringeva i Lettori a far uso della toga, e non soltanto sulla cattedra, avrà contribuito a porlo in voce d'uomo leggero e poco reverente alla dignità cattedratica, mentre le sue idee novatrici lo facevano qualificare ingegno presuntuoso, turbolento e temerario.
      Abbia egli o no provocato il dispetto d'un bastardo di Casa Medici, pronunciandosi contrario ad un apparecchio da esso ideato per vuotare la darsena di Livorno, aggiungendo nuove cause alle altre che gli facevano temere, o di non conseguire quel miglioramento che per la morte del padre erasi reso tanto necessario, od anche di non essere confermato nella lettura; risulta che, prima dello spirare del triennio per il quale era stato eletto, volse senz'altro le sue mire alla cattedra di Padova, che, in mancanza d'un degno soggetto, la Serenissima continuava a mantenere vacante.


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Galielo Galilei
di Antonio Favaro
Bietti Milano
1939 pagine 58

   





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