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      Nella gran sala dei Domenicani alla Minerva si svolge l'ultima scena. Letta la sentenza che proibiva il suo libro, Galileo, dovette abiurare la dottrina copernicana e "con cuor sincero e fede non finta" dichiarare di maledirla e di detestarla.
      Onde giustamente fu scritto che, contro violenza così contraria alla dignità umana e all'assoluto dominio che compete alla verità, protestò nel secolo seguente la coscienza popolare, giudicando e condannando a sua volta i teologi con quel motto sublime: Eppur si muove!
     
      X.
     
      Poco costò al Pontefice il mostrarsi clemente verso il grande pensatore ridotto all'impotenza. Dal Palazzo del Sant'Ufficio, dove era stato tradotto dopo udita la sentenza e pronunziata l'abiura, potè passare due giorni appresso in quello del Granduca di Toscana alla Trinità dei Monti, con precetto però di doverlo tenere in luogo di carcere; e ad una sua supplica diretta ad ottenere la commutazione del carcere di Roma con altro simile in Firenze, si rispondeva permettendogli di trasferirsi a Siena.
      Circondato di cure affettuosissime da quell'arcivescovo Ascanio Piccolomini, presso il quale veniva relegato, riprese subito quegli studi sulla resistenza dei solidi, sul moto dei gravi in generale e dei proietti in particolare, dei quali i primi fondamenti aveva posti fin dal tempo in cui era lettore a Padova; e quando finalmente ottenne di poter far ritorno, sempre però in istato di prigionia, in Arcetri, li proseguì e li condusse a compimento con immenso giubilo dei suoi amici e discepoli.


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Galielo Galilei
di Antonio Favaro
Bietti Milano
1939 pagine 58

   





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