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      Comunque siano avvenute le cose, certo è che, per dichiarazione di Galileo stesso, il timore ch'egli aveva del Sant'Ufficio entrò, almeno in qualche parte, nell'impedire che approdassero le trattative ch'egli aveva intavolate per cedere agli Stati Generali d'Olanda il suo ritrovato per la determinazione delle longitudini in mare.
      Ma mentre, per fondati motivi, erano più vive in Galileo le speranze di buon esito per questa, che era stata fra le più gravi preoccupazioni di tutta la sua vita, sul prigioniero di Arcetri, colpito già così fieramente nella sua fede di scienziato e nei suoi affetti di padre, piombava un'altra e gravissima sciagura.
      Già fin dal maggio 1636 i molti acciacchi e l'indebolimento della vista avevano costretto Galileo a smettere le osservazioni notturne che egli aveva sino allora diligentemente proseguite, e che ebbero per risultato l'ultima sua scoperta astronomica, quella cioè della titubazione lunare. Nel marzo 1637 egli aveva già l'occhio destro infermo, e così rapidamente ne andarono peggiorando le condizioni che pochi mesi dopo egli lo aveva completamente perduto. Alle gravi infermità, scrive egli ad Elia Diodati sotto il dì 4 luglio 1637, "aggiugnesi (proh dolor!) la perdita totale del mio occhio destro, che è quello che ha fatto le tante e tante, siami lecito dire, gloriose fatiche. Questo ora, Signor mio, è fatto cieco; l'altro che era ed è imperfetto, resta ancor privo di quel poco di uso che ne trarrei quando potessi adoperarlo, poichè il profluvio d'una lacrimazione, che di continuo ne piove, mi toglie il poter far niuna, niuna, niuna delle funzioni, nelle quali si chiede la vista". Tre mesi dopo non poteva più guardare attraverso una lente, e dopo tre altri mesi così rapidamente andava "verso le tenebre" che potè credersi ormai prossimo ad essere definitivamente cieco, e in questi termini egli partecipa allo stesso Diodati l'infelicissimo caso: "Il Galileo vostro caro amico e servitore, da un mese in qua è fatto irreparabilmente del tutto cieco; talmente che quel cielo, quel mondo e quell'universo, ch'io con mie meravigliose osservazioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte, più del comunemente creduto da' sapienti di tutti i secoli passati, ora per me si è diminuito e ristretto, ch'è non è maggiore di quello che occupa la persona mia".


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Galielo Galilei
di Antonio Favaro
Bietti Milano
1939 pagine 58

   





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