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      Collo stabilire un principio, i filosofi del decimottavo secolo prendevano l'assunto, come Descartes, come Spinosa, di scoprire la grand'equazione dell'universo; l'assurdo cartesiano ripetevasi capovolto quando essi passavano dall'individuo o piuttosto dalla sensazione al genere e all'idea. Essi non possono potevano limitarsi a dichiarare che il genere è una nostra maniera di vedere; devono penetrare il processo con cui si forma nel nostro intelletto. Locke dice che formasi per astrazione: così una facoltà dell'anima si sostituisce alle somiglianze delle cose, o almeno le supplisce. Esistono esse realmente? o sono nostre illusioni? Se non esistono, l'astrazione non può afferrarle; se esistono, i generi sono, non si formano. Adamo Smith risponde che non esistono, che noi generalizziamo colla forza sola della parola, che la parola sola è generica, che il genere non è. Sia; in qual modo la parola sola sarebbe generica? in qual modo produrrebbe essa l'illusione del genere? È convenuto che il genere non è; è inteso che l'illusione del genere esiste; ma se essa sorge dalla parola, bisogna mostrarci in qual modo la parola oltrepassando le cose percette, le fa parere come non sono, nei generi. Hume risponde, che la parola corrobora l'associazione delle idee, cioè l'abitudine; e l'illusione del genere esce dall'abitudine, la quale riunisce gli individui distinti e li afferra nell'ordine del loro apparire, sì che ogni uomo ci richiama gli uomini. La risposta non vale: gli uomini non sono l'uomo; la moltitudine non è il genere; la unione non è la generalizzazione.


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Filosofia della rivoluzione
di Giuseppe Ferrari
1851 pagine 693

   





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