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      Ambedue poi i cittadini di Napoli considerano l'uomo come la regola dell'universo, la sua divinità vera o falsa come l'unica luce che brilla nel mondo, e se parte dal basso il moto del Triregno, quello della Scienza nuova parte talmente dalle moltitudini e dalla volgare loro sapienza, che toglie ogni valore personale ai capi, sforzandoli a non essere altro che miti o personaggi ideali.
      Non parlo di altre analogie tra i due scrittori stabilite dalla scienza, dalla patria, dall'epoca. Citano entrambi nello stesso modo Varrone, parlano egualmente dell'era in cui mescolavansi gli dêi cogli uomini, fissano parimenti lo sguardo su Omero considerato come rivelatore de' suoi tempi, sfogliano nello stesso modo Tito Livio considerato come l'interprete della Republica Romana, ammirano istessamente l'antica Roma come il tipo della sapienza civile, sono egualmente ingegnosi nell'originalità delle interpretazioni e nel maneggio dei miti. Quando Giannone parla dell'opinione di Plinio e di Tacito, che il cielo sia riservato agli dêi e la terra agli uomini, credereste d'intendere la voce di Vico; quando nota nelle Memorie che ogni popolo si crede il progenitore più antico degli altri popoli, e che questa vanagloria conferma la idea comune a tutti di riputarsi destinati a invadere il mondo con un regno terrestre, egli rivalizza ancora col Vico, il quale trova invece in questa opinione la prova che idealmente la stessa è l'origine di ogni nazione, attonita poi e scioccamente boriosa nel vedere i propri dêi tra gli esteri.


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La mente di Pietro Giannone
Lezioni
di Giuseppe Ferrari
Tipografia del Libero Pensiero
1868 pagine 187

   





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