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      È da vedere quale delle due cose la selva sia atta a rappresentare. Il Poeta ce la dipinge oscura, selvaggia, aspra e forte, paurosa ed amara molto. Da che cosa è tratto l'uomo a durare nella vita viziosa? O da quell'apparente piacere che ve lo lusinga, oppure dalla catena con che il delitto lega il delinquente. La selva, quale ce la descrisse l'Alighieri, non può figurare il primo caso, perchè essa, che era orrenda e piena di paura e d'amarezza, non poteva avere allettato il povero Dante da rimanervi dieci anni, com'egli confessa che vi stette. Potrebbe figurare il secondo, perchè un delitto trascina all'altro e vi costringe l'uomo, non ostante l'orrore e l'affanno, di cui senza tregua gli circonda l'anima: ma il nostro poeta fu mai delittuoso o tanto scellerato? Se dunque la selva non può significare vita di vizii che l'Alighieri avesse menato dalla morte di Beatrice fino a che non fu venuto a metà cammino di sua vita, per la ragione ch'egli non fu mai sì perduto da durare in uno stato ove non trovava nessun allettamento, viene a tenere la seconda ipotesi, che la selva sia la trista condizione, a cui lo trassero due lustri d'errore. Beatrice in quel rimbrotto, che è come la chiave prestataci dal poeta per disserrare il mistero della selvaggia selva, abbiamo veduto rinfacciare a Dante, ch'egli dopo la morte di lei,
     
      v. 131. «Immagini di ben seguendo false,
      Che nulla promission rendono intera»,
     
      avesse abbandonato la strada verace; e senza ascoltare ispirazioni fosse tanto caduto giù che omai la sua salvezza era disperata.


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La religione e la politica di Dante Alighieri
di Paolo Ferroni
Utet Torino
1861 pagine 85

   





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