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      Per trovarne scusa esporrò le ragioni che mi vi hanno indotto. Prima di tutto non posso persuadermi che in quel luogo il Poeta si possa essere inteso di morte naturale, poichè ciascun buon filosofo mi sa dire che la morte per sè non è amara: e dobbiamo ben mille volte supporre che il sapesse il Poeta pieno di tanta filosofia. Nè anche si vuole interpretare per morte dell'anima, perchè quando la selva volesse pur dire stato di peccato, questo stato di peccato corrisponderebbe a morte dell'anima; e quindi cesserebbe il confronto tra l'amarezza di quello stato e l'amarezza di questa morte, che sarebbe tutt'uno. Ora non essendo nè l'una cosa nè l'altra, che cosa sarà dunque la morte di quel verso? Troviamo al III Canto dell'Inferno, che parlando Dante di quelli che vissero senza infamia e senza lodo, ci avvisa che costoro non hanno speranza di morte, e che la loro cieca vita è tanto bassa, che sono invidiosi d'ogni altra sorte. Questo passo è quello che porgerebbe, a mio parere, la spiegazione. Imperocchè dicendoci che essi, che son già morti del corpo e dell'anima, non hanno speranza di morte, la qual morte pur desidererebbero, invidiosi come sono d'ogni altra sorte per la loro cieca vita che è tanto bassa, ci viene a dichiarare il Poeta, che costoro che non hanno lasciata al mondo una mica di fama, perchè nulla vi hanno operato, invidierebbero perfino la sorte di quelli che s'acquistarono nome d'infami, tanto dispiace a loro quel disdegno in che li tiene la misericordia e la giustizia di Dio, che forma il tormento onde si lamentano così forte.


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La religione e la politica di Dante Alighieri
di Paolo Ferroni
Utet Torino
1861 pagine 85

   





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