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      Presto si giunge a un gomito del fiume. Non più sole, non più verde, non più riso d'acque: immani fauci di pietra vi si spalancano in viso e vi fermano con il ruggito sordo che n'esce, con il freddo alito umido che annera là in fondo la gola mostruosa. Il ruggito vien su dalle viscere profonde; l'acqua passa per la bocca degli scogli, grossa, cupa, ma silenziosa. Una sdrucita barchetta è lì incatenata a un anello infisso nella rupe. Porta due persone oltre il barcaiuolo. Si risale la corrente con quella barchetta che pare non voler saperne, torce il muso ora a destra ora a sinistra e scapperebbe indietro senza la pertica di Caronte. Il fragore cresce; la luce manca. Si passa tra due rupi nere, qua rigonfie come strane vegetazioni, gemme enormi della pietra, là cave e stillanti come coppe capovolte; tutte rigate ad intervalli eguali, scolpite a gengive su gengive dal fondo alla cima. In alto, il cielo si restringe via via tra scoglio e scoglio, e scompare. La barchetta salta in una fessura buia, piena d'urla, si dibatte, urta a destra, urta a sinistra, folle di spavento, sotto gli archi echeggianti della pietra che, morsa nelle viscere dal flutto veloce, si slancia in alto, si contorce. Dal sottilissimo strappo che fende il manto boscoso di quelle rupi filtra nelle tenebre un verdognolo albore, un lividore spettrale che macchia cadendo le sporgenze della roccia, vien meno di sasso in sasso e si perde prima di toccar l'acqua verde cupa; si direbbe un raggio di luce velata di nuvole, sull'alba.


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Malombra
di Antonio Fogazzaro
pagine 519

   





Caronte