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      Oh, lo credo anch'io.
      Parlò ancora solo la voce blanda. Il Vezza gittò il suo sigaro.
      Che veleno!
      diss'egli.
      Dunque?
      soggiunse dopo una breve pausa.
      Cosa, dunque?
      La canzonetta?
      Ah, ecco - Stanote de Nina...
      L'avvocato abbassò la voce, e la tramontana leggera che attraversava gli archi, sciolse, portò via le parole voluttuose.
     
      Nella sua stanza, dove un fioco lumicino posato a terra spandeva nell'aria calda e greve certo chiarore sepolcrale, il conte Cesare supino, immobile, non vedeva la Giovanna seduta presso il letto con le mani sfiduciate sulle ginocchia, e gli occhi fissi in lui. Credeva invece veder la figura di sua nipote ritta in mezzo alla camera. Era sua nipote e un'altra persona nello stesso tempo, ciò gli pareva naturale. Si moveva, parlava, guardava con due occhi pieni di delirio; come mai se quella persona era morta e sepolta da lungo tempo? Egli lo sapeva bene ch'era stata sepolta, ricordava d'averlo inteso da suo padre; ma dove, dove? Tormentosa dimenticanza! C'era pure nella sua memoria quel luogo, quel nome; ve lo sentiva muoversi, salire, salire finché ne scattò su, in lettere visibili.
      Credette allora cavar di sotto le lenzuola il braccio destro, stenderlo, appuntar l'indice a colei, dirle ch'ella mentiva e ch'era ben sepolta ad Oleggio, nella cappella di famiglia. Ma la donna lo minacciava ancora, lo sfidava, gli gettava un guanto; pareva Marina ed era la prima moglie di suo padre, la contessa Cecilia Varrega. Ella lo sentiva, parlava di antiche colpe, di una vendetta da compiere.


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Malombra
di Antonio Fogazzaro
pagine 519

   





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