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      Balzò quindi in punta di piedi all'uscio del moribondo e origliò.
      Suscipe, Domine
      diceva don Innocenzo "servum tuum in locum sperandae sibi salvationis a misericordia tua."
      Una larga voce, breve e grave come un soffio di organo appena tocco, rispose:
      Amen.
      Silla strinse, come chi affoga, la maniglia dell'uscio. Questo fu aperto; si sussurrò: "Avanti!".
      Egli entrò, non guardò, non vide; cadde ginocchioni presso una sedia, accanto alla porta.
      La luce d'una candela posata a terra presso il letto batteva sulle bianche lenzuola cadenti, sui pomi d'ottone della lettiera, sui frantumi di ghiaccio sparsi pel pavimento; gittava attraverso la camera la grande ombra di don Innocenzo, ritto presso al moribondo di cui si udiva il rantolo affannoso, precipitato. Da piè del letto, nella penombra, stava il medico, ritto; accanto a lui Giovanna, inginocchiata, soffocava i singhiozzi nelle coltri. Dispersi nelle ombre dell'ampia camera erano inginocchiati la contessa Fosca e suo figlio, il Vezza, i domestici, il giardiniere. Questi e il cameriere del conte piangevano. Il Mirovich, vecchio mondano, stava appoggiato alla parete in un angolo. Se ne sarebbe andato volentieri; restava per un riguardo alla contessa.
      Un'altra persona era in piedi in mezzo alla camera, a pochi passi dall'uscio: Marina. Le si vedevan bene la punta lucida, vibrante d'uno stivaletto, la gonna bianca a ricami azzurri; pareva tener le braccia incrociate sul petto; del viso nulla discernevano né la contessa Fosca, né suo figlio, né il Vezza che le avean gli occhi addosso.


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Malombra
di Antonio Fogazzaro
pagine 519

   





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