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      Egli attribuiva questo silenzio a modestia, al desiderio di nascondere un azione generosa; e quantunque avesse preso da Franco più d'un brusco rabbuffo e sentisse di non esserne tenuto in gran conto, lo guardava con un rispetto pieno d'umile devozione. Franco fu il primo a scoprir la quarta carta e le buttò via dispettosamente tutte mentre don Giuseppe esclamava: "Ovèj! L'è négher!", e si fermava a pigliar fiato prima di andar avanti a scoprire "se l'era güzz o minga güzz", cioè s'erano picche o fiori. Ma l'ingegnere, alzato dalle carte il viso placido e sorridente, si mise a batter col dito, sotto il piano del tavolino, dei colpettini misteriosi che volevan dire: c'è la carta buona; e allora don Giuseppe, visto che il suo "négher" non era "güzz", cacciò un "malarbetto!" e buttò via le carte anche lui. "Che reson de ciapà rabbia!", fece l'ingegnere. "Anca vü sii négher e sii minga güzz." Il prete, avido della rivincita, si contentò d'invocarla sdegnosamente: "Scià i cart, scià i cart, scià i cart!". E la partita, simbolo dell'eterna lotta universale fra i neri e i rossi, ricominciò.
     
      Il lago dormiva oramai coperto e cinto d'ombra. Solo a levante le grandi montagne lontane del Lario avevano una gloria d'oro fulvo e di viola. Le prime tramontane vespertine movevano le frondi della passiflora, corrugavano verso l'alto, a chiazze, le acque grigie, portando un odor fresco di boschi. Il professore era partito da un pezzo quando Luisa ritornò. Ell'aveva incontrato sulla scalinata del Pomodoro una ragazza piangente che strillava, "el mè pà el voeur mazzà la mia mamm!


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Piccolo mondo antico
di Antonio Fogazzaro
pagine 421

   





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