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      Il Boccaccio si sofferma a bell'agio di cosa in cosa pur a sfoggiarle con quel suo pennelleggiare che da' pittori si chiamerebbe piazzoso; e le amplifica in guisa da far sospettare ch'egli esageri. - «Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire; il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fede degno udito l'avessi». E non gli basta. - Di che gli occhi miei (siccome poco davanti è detto) presero, tra l'altre volte, un dì così fatta esperienza... nella via pubblica.(35) Vero è che Tucidide narra con maggior efficacia, perchè n'ebbe esperienza più certa - «Ho patito di quel morbo anch'io, e l'ho veduto patire dagli altri(36)»; - ma s'astiene da ogni esclamazione rettorica, e da professioni di verità. La tempra diversa de' loro ingegni e la diversità de' loro studj gli ammaestrava a disegnare e colorire i medesimi fatti in due maniere affatto diverse. Le arti meretricie dell'orazione, che il Boccaccio derivò con ammirazione dai retori romani, non erano ancora fatturate da Isocrate e da que' parolai, nè celebrate in Atene all'età di Tucidide; ond'è il men attico fra gli Ateniesi, perchè modellava il suo dialetto materno sovra la lingua universale e schiettissima discesa da Omero, la quale non fu congegnata a mosaico di dialetti diversi, com'è generale opinione, ma fu studiata da poeti e da storici a infondere qualità letteraria a' dialetti delle loro città, sì che scrivendoli riescissero più agevoli a tutta la Grecia; - e perchè quella lingua primitiva era nazionale e vivente, i dialetti acquistavano decoro per essa, e non perdeano vigore.


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Sulla lingua italiana
Discorsi sei
di Ugo Foscolo
Istituto Editoriale Italiano
1914 pagine 176

   





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