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      E questa fu la risposta che fu data al memoriale che il S.r Ambasciator di Toscana, dopo nove mesi del mio essilio, aveva presentato al detto Tribunale: dalla qual risposta mi par che assai probabilmente si possa conietturare, la mia presente carcere non esser per terminarsi se non in quella commune, angustissima e diuturna.
      Da questo e da altri accidenti, che troppo lungo sarebbe a scrivergli si vede che la rabia de' miei potentissimi persecutori si va continuamente inasprendo. Li quali finalmente hanno voluto per sé stessi manifestarmisi, atteso che, ritrovandosi uno mio amico caro circa due mesi fa in Roma a ragionamento col P. Cristoforo Grembergero, giesuita, Matematico di quel Collegio, venuti sopra i fatti miei, disse il giesuita all'amico queste parole formali: «Se il Galileo si avesse saputo mantenere l'affetto dei Padri di questo Collegio, viverebbe glorioso al mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e arebbe potuto scrivere ad arbitrio suo d'ogni materia, dico anco di moti di terra, etc.»: si che V. S. vede che non è questa né quella opinione quello che mi ha fatto e fa la guerra, ma l'essere in disgrazia dei giesuiti.
      Della vigilanza dei miei persecutori ho diversi altri rincontri. Tra i quali uno fu, che una lettera scrittami non so da chi da paesi oltramontani e inviatami a Roma, dove quello che scriveva doveva credere che tuttavia dimorassi, fu intercetta e portata al S.r Card.le Barberino; e, per quanto da Roma mi venne poi scritto, fu mia ventura che non era lettera responsiva, ma prima, piena di grandi encomii sopra il mio Dialogo; e fu veduta da più persone, e intendo che ce ne sono copie per Roma e mi è stato dato intenzione che la potrò vedere.


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Lettere
di Galileo Galilei
Ricciardi Editore
1953 pagine 265

   





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