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      E sin qui approvo e laudo il suo instituto, se non in quanto seco porta indizio del mio non ben saldo discorso. E perché egli procede come matematico e fisico, andrò esaminando come filosofo, qualunque io mi sia, e come matematico le sue opposizioni; facendo anco qualche poco di considerazione intorno alla forma dell'argumentare che egli tal volta tiene, quanto ella sia conforme a i dialettici precetti posti da Aristotele.
      Piglio dunque la sua prima instanza, contenuta dal principio del capitolo sino a «Dein vero, quum in plenilunio Terra» etc. Mentre io vo con attenzione esaminando questo primo discorso, lo trovo veramente con bello artifizio tessuto; e l'artifizio mi si rappresenta tale. Due parti si contengono in esso conteste: l'una è nella quale ei vuol dimostrare, il candor della Luna non potersi in modo alcuno riconoscere dalla Terra; l'altra è il concludere, tal effetto procedere dall'etere ambiente essa Luna. Quanto alla prima, molto probabilmente cammina il suo discorso, dicendo, il candor della Luna non poter derivare se non da quel corpo dal quale provengono le differenze di esso candore, le quali differenze sono il farsi tal candore or più ed or meno lucido: e questo non può provenire dalla Terra, avvengaché la sua lontananza dalla Luna non si muta: e però il reflesso della Terra deve esser sempre uniforme, ed in conseguenza impotente a produr differenze in esso candore; adunque, né meno il candor medesimo. Il discorso, pigliandolo a tutto rigore, patisce non leggier mancamento: il quale è, che nel raccorre la conclusione dalle premesse, s'introduce un quarto termine, non toccato nelle premesse, il quale è la Terra.


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Lettere
di Galileo Galilei
Ricciardi Editore
1953 pagine 265

   





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