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      Essa aveva trovato in questo giardino deserto e quasi tornato allo stato di natura, una certa poesia selvaggia che l'era piaciuta: sotto il potente clima di Napoli tutto aveva vegetato con un'attività prodigiosa.
      Aranci, mirti, melagrani, limoni, crescevano a dismisura ed i rami non avendo più a temere il falcetto del giardiniere si davano la mano da una estremità all'altra dei viali oppure penetravano familiarmente nelle camere attraverso qualche vetro rotto.
      Non era, come accade nel Nord, la tristezza d'una casa abbandonata; ma la gaiezza folle e la petulanza felice della natura del Mezzogiorno abbandonata a sè stessa: nell'assenza del padrone le piante esuberanti si davano ad un'orgia di foglie, di fiori, di frutta e di profumi: esse riprendevano il posto che l'uomo disputa loro.
      Allorchè il commodoro (cosi chiamava Alicia suo zio), vide questo buco impenetrabile, per avanzarsi attraverso il quale sarebbe abbisognata una sciabola di diboscamento precisamente come nelle foreste d'America, egli gettò alte grida e pretese che sua nipote era decisamente pazza.
      Ma Alicia gli promise gravemente che avrebbe fatto praticare dalla porta d'ingresso al salone e dal salone alla terrazza, un passaggio sufficientemente bastevole per un barilotto di malvasia, sola concessione ch'essa poteva accordare al positivismo dello zio.
      Il commodoro si rassegnò, poichè egli non sapeva resistere a sua nipote; ed in questo momento, seduto in faccia a lei sulla terrazza, egli centellinava, sotto il pretesto del thè, una enorme tazza di rhum.


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Jettatura
di Théophile Gautier
Sonzogno Milano
1910 pagine 113

   





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