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      Filippo si spaventò. Temeva che il tradimento di quell'esercito non divenisse la prima favilla di un generale incendio. Agitato dalla coscienza della sua reità, e dal suo pericolo, comunicò la nuova al senato. Restarono tutti in un profondo silenzio, effetto del timore, e forse della malevolenza: ma Decio finalmente, uno dell'assemblea, con animo degno della nobil sua nascita(732) osò mostrarsi più intrepido del medesimo Imperatore. Trattò tutto quell'affare con disprezzo, come un precipitoso o sconsiderato tumulto, ed il rivale di Filippo, come un fantasma di sovranità, che sarebbe in pochi giorni distrutto dalla stessa incostanza che creato l'avea. Il pronto adempimento della profezia inspirò a Filippo una giusta stima verso un consigliere sì abile; e Decio gli parve il solo capace di ristabilire la quiete e la disciplina in un esercito, il cui spirito tumultuoso non era interamente calmato dopo l'assassinio di Marino. Sembra che Decio, resistendo lungamente alla scelta fatta di se, volesse mostrare il pericolo che vi era nel presentare un condottiero di merito agl'inaspriti e paventanti soldati; e la sua predizione fu di nuovo confermata dall'evento. Le legioni della Mesia costrinsero il loro giudice a divenire lor complice, presentandogli l'alternativa della morte o della porpora. La sua susseguente condotta, dopo un passo così decisivo, era già inevitabile. Condusse egli, o piuttosto seguì la sua armata ai confini dell'Italia, dove Filippo, adunando tutte le sue forze per respingere il formidabile competitore da lui stesso innalzato, si avanzò ad incontrarlo.


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Storia della decadenza e rovina dell'Impero Romano
Volume Primo
di Edoardo Gibbon
pagine 475

   





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