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      Le ripeto che mi son trovato a questi ferri, posso dire senza volerlo, un po' spinto da un certo diavolo che mi brontolava dentro, un po' tirato cogli argani, ora da questo ora da quell'altro amico. Non so se le cose che scrivo siano popolari (perchè prima bisognerebbe stabilire una volta per sempre cos'è popolo); so che amo il popolo vero, e che mi tengo a onore di battezzare nell'inchiostro i modi che gli nascono vivacissimi sulle labbra, e che molti non ardiscono di raccogliere, come se scottassero. Per far lega d'interessi comuni, credo che bisogni prima accomunare il modo di trattarli, a fare accorti i semplici e i timidi che certe verità credute arcane, e più alte dei cieli, non sono poi tanto distanti dalla terra come si crede, o come vorrebbero farci credere. Tengo per indubitato che i veri più ardui senza scemarli di grado possano esprimersi, starei per dire, con un linguaggio da serve; ma il male è che scrivendo, ci ballano davanti su per il tavolino le larve accademiche, invece delle moltitudini che chiedono pane, e lume per vederci. Vorrei che i libri si scrivessero per insegnare, invece si scrivono per mostra di sapere. Per me, studio il popolo, e vado a nozze, quando e negli usi e nelle parole mi si fa sentire figliolo legittimo del suo paese, più assai di qualche gonfianuvoli che manda a spasso il cervello sempre vestito in gala scrivendo scelto e appuntato. Son nato e cresciuto in un paese di monte, ove la lingua si parla un po' alla buona, ma schietta, vivace, non frastagliata di voci, e molto meno di modi stranieri.


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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze
1863 pagine 416