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      Se mi sentissi nato ai lavori di lunga lena, mi ci sarei messo colle mani e coi piedi; ma oramai avvezzo a spelluzzicare, non mi fido di mettermi intorno a un osso duro, come chi ha i denti a tutta prova.
      130.
      Al Marchese Gino Capponi.
      Mio caro Gino.
      Sperava di rivedervi a Firenze, nel caso che avessi potuto tornarmene a Pescia per la parte di costà; ma o sia stato il freddo improvviso, o il male di per sè stesso, da una condizione assai buona di salute, son tornato a un tratto a patire peggio di prima, e ho dovuto venirmene per la più corta. Ora che avrei bisogno di stare coi miei amici più cari, e, lo dirò schiettamente, d'aiutarmi della loro compagnia e dei loro conforti, mi tocca a star qua.... Se potessi almeno leggere a modo mio, potrei dire di non vivere solitario affatto; ma quando questo diavolo mi si fa risentire, m'è troncata anco la facoltà di pensare, e non ho più niente, non ho più senso di vita che per avvertire i miei dolori. Ho provato a prendere in mano un lavoro da nulla, e là là, giorno per giorno, mettere insieme poche linee tanto per distrarmi; ma, Gino mio, che vuoto, che sterilità, che paralisia di testa! Meglio non far nulla, che far così male; e beato me se almeno non me n'accorgessi. Del resto poi, l'animo mio non vi dirò che sia nè fermo nè sereno del tutto, ma sente e nutre quella specie di quiete mesta e solenne che deriva dall'essere stanco. D'una vita come questa non saprei che farmene, perchè inutile, e perchè non ho mai mirato a vivere inutilmente; dall'altro canto so che nessuno ha diritto di diprezzare la propria esistenza, ed io cercherò di non doventare un pazzo per non sapere nè soffrire nè morire.


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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze
1863 pagine 416

   





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