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      Di quell'edizione del Porta, se è piena di spropositi, non ne fate altro, ma serbatemi la Prineide. Se mi tornano le forze, vi scriverò fino a venirvi a noia, parlandovi al solito molto del mio signor me, come fanno i malati e i solitari. Non abbiate paura che io mi sciupi a studiare, perchè non l'ho fatto mai neppure quando avevo l'ossa più addobbate, figuratevi ora! Addio, mia cara, io vi voglio tanto bene; che sono sull'undici once d'innamorarmi di voi; ma ricordiamoci del dialogo di sopra.
      171.
      A Massimo D'Azeglio.
      Carissimo Azeglio.
      Quello che vi scrissi nel prim'impeto dell'affetto e dell'allegrezza, vedendovi riuscito a buon porto, ve lo ripeto adesso con tutta la calma dell'uomo che ci ha pensato e dormito sopra. Voi col vostro Niccolò de' Lapi avete fatto un'opera buonissima, e chi non lo sente o non lo vuol confessare, peggio per lui. Piace oggigiorno l'apologia del fratricidio, piace chi svolge in iscene turpi e bislacche la tela finissima degli adulterii e degl'incesti; a questa ciurma tisica d'infingardi lisciati e tremanti piace non so come sguazzare nelle sozzure e nel sangue. Voi al secolo scettico ponete dinanzi le severe virtù cittadinesche, i santi e solenni sacrifici in pro della patria, e le virtù non meno sante nè meno solenni per le quali splendono le pareti domestiche d'un lume quieto e soave. E chi mai può tacciarvi di briccone? Certo, alle male anime che traggono profitto d'una mala vita, rincrescerà che voi abbiate bollato di nuova infamia il Malatesta; rincrescerà ai Troili, ai Nobili, ai Pier Vettori del ventuno e del trentuno specchiarsi nel vituperio di quelli del cinquecento.


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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze
1863 pagine 416

   





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