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      Tra i tanti temi discussi fu quello della lingua. Si trattava cioè di decidere se fosse opportuno insegnare anche alle popolazioni semiselvagge dell'Africa a leggere prendendo per base l'inglese anziché il loro idioma nativo, se fosse meglio mantenere il bilinguismo o tendere, per mezzo dell'istruzione, a far scomparire la lingua indigena. Ormsby Gore, ex sottosegretario alle colonie, sostenne che era un errore il tentare di snaturalizzare le tribú africane e si dichiarò favorevole ad una educazione tendente a dare agli africani il senso della propria dignità di popolo e la capacità di governarsi da sé. Nel dibattito che seguí la comunicazione dell'Ormsby «mi colpirono le brevi dichiarazioni di un africano, credo che fosse uno zulú, il quale tenne ad affermare che i suoi, diciamo cosí, connazionali, non avevano alcuna voglia di diventar europei; si sentiva nelle sue parole una punta di nazionalismo, un leggero senso di orgoglio di razza».
      «Non vogliamo esser inglesi»: a questo grido che prorompeva spontaneo dal petto dei rappresentanti degli indigeni delle colonie britanniche dell'Africa e dell'Asia, faceva eco l'altro grido dei rappresentanti dei Dominions: «Non ci sentiamo inglesi». Australiani e canadesi, cittadini della Nuova Zelanda e dell'Africa del Sud, erano tutti concordi nell'affermare questa loro indipendenza non solo politica, ma anche spirituale. Il prof. Cillie, preside della facoltà di lettere in una università sudafricana, aveva argutamente osservato che l'Inghilterra, tradizionalista e conservatrice, viveva nello ieri, mentre essi, i sudafricani, vivevano nel domani.


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Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura
di Antonio Gramsci
pagine 299

   





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