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      L'obbiezione ha una parvenza di verità: se Dante non può immaginarsi, come il Manzoni, ponente dei limiti alla sua espressione per ragioni pratiche (il Manzoni si propose di non parlare dell'amore sessuale e di non rappresentarne le passioni nella loro pienezza, per ragioni di «morale cattolica»), il fatto sarebbe avvenuto per «tradizione di linguaggio poetico», che del resto Dante non avrebbe sempre osservato (Ugolino, Mirra, ecc.), «rincalzato» dai suoi speciali sentimenti per Guido. Ma si può ricostruire e criticare una poesia se non nel mondo dell'espressione concreta, del linguaggio storicamente realizzato? Non un elemento «volontario» dunque, «di carattere pratico o intellettivo» tarpò le ali a Dante: egli «volò con le ali che aveva» per cosí dire, e non rinunziò volontariamente a nulla. Su questo argomento del neomaltusianismo artistico del Manzoni cfr. il libretto del Croce; e l'articolo di Giuseppe Citanna nella «Nuova Italia» del giugno 1930.
      Plinio ricorda che Timante di Sicione aveva dipinto la scena del sacrificio di Ifigenia effigiando Agamennone velato. Il Lessing, nel Laocoonte, per primo (?) riconobbe in questo artificio non l'incapacità del pittore a rappresentare il dolore del padre, ma il sentimento profondo dell'artista che attraverso gli atteggiamenti piú strazianti del volto, non avrebbe saputo dare un'impressione tanto penosa d'infinita mestizia come con questa figura velata, il cui viso è coperto dalla mano. Anche nella pittura pompeiana del sacrifizio d'Ifigenia, diversa per la composizione generale dal dipinto di Timante, la figura di Agamennone è velata.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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