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      Sardou immagina attorno a Robespierre un dramma dei soliti: il dramma della paternità violentata. E costringe la storia entro questa sua trama: Massimiliano, nei giorni del terrore, ritrova un figlio natogli da una aristocratica, e lotta per salvare dalla ghigliottina il giovane e sua madre. Ma l'odio e la paura che egli ha seminato intorno a sé tendono continuamente agguati al suo sentimento paterno, e come supremo oltraggio, armano la mano del figlio contro il padre. Ma l'abile sceneggiatore francese non riesce a far dimenticare il Robespierre ormai fissatosi nelle coscienze attraverso la storia: il dramma che egli escogita per cercare effetti sensazionali, rimane una superficiale successione di scene e di dialoghi, che dovrebbero apparire drammatici per il protagonista quale storicamente è conosciuto, e il quale è invece completamente svuotato della sua piú vera e concreta vita, quella di rivoluzionario. Cosí i cinque atti e due quadri passano nella loro puerile e convenzionale meccanicità teatrale, applauditi mediocremente e finiscono nell'ultima scena, quella del parricidio, senza che quest'ultimo colpo riesca piú a scuotere e commuovere. Sardou ha fatto violenza alla storia, ha posto in iscena un Robespierre di sua invenzione, che avrebbe dovuto essere piú uomo e meno personaggio; ma non ha saputo crearlo, quest'uomo, e ne è venuto fuori un fantoccio ridicolo.
      Alfredo De Sanctis ha molto contribuito con la sua arte, a tener su il lavoro, ma molto spesso anch'egli, per la refrattarietà della materia, è stato convenzionale.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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