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      L'esposizione dell'intreccio può perciò dare solo un'idea di questa volontà che non ha trovato uno sbocco. Il dramma avrebbe dovuto scaturire dall'urto di tre personaggi. Una giovinetta, Mirella, che nel primo atto sembra debba promettere tutta una serie di impressioni vive e liete di colori sgargianti, ma che in seguito si affloscia e diventa una figura lattiginosa, dolciastra, senza anima. Due uomini: Luciano D'Alvezza, un gaudente, un amorale, un conquistatore di donne, che affoga negli imbrogli e per liberarsi dal fango che sta per sommergere il rudere del suo blasone marchionale, va volontario alla guerra, ma non senza aver cercato all'ultima ora di usare violenza a Mirella. E Michele, contraltare di Luciano, lavoratore indefesso, volontà e costanza di ferro, il quale si innamora di Mirella, si promette a lei, crede per un momento di aver costruito definitivamente la magione austera della sua felicità. Il lavoro, che a mala pena era riuscito a puntellarsi fino a questo punto, precipita definitivamente nell'incognito indistinto. I rimasti, Mirella e Michele sono ormai solamente dei bambocci-fonografi. Dalle parole che si scambiano dovrebbe apparire come qualmente Mirella è preda di una fatale passione per il lontano eroe che muore al fronte per una salva di aggettivi, e come qualmente Michele non vuole usurpare nel cuore della donzella il posto che il lontano amante vi ha preso. La fine cosí verbosamente impiastricciata ha suscitato qualche sibilo e molte proteste. Gli ottimi artisti della compagnia di Luigi Carini, che avevano preparato un'interpretazione degna di un bel lavoro, non potevano che far apparire mortificate le loro qualità.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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