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      E aspre polemiche e dibattiti dolorosi si sono svolti, su questo argomento, né ebbero ancor fine.
      «Dicono i comici: lunghi anni di lotta ci avevano fatto ottenere equi patti di scritture, con l'abolizione di certe clausole viete e sommamente pericolose per noi, e la concessione di tali garanzie che ci assicuravano un pane modesto dandoci quella tranquillità di vita che è indispensabile al miglior esercizio dell'arte nostra. Ed ora d'un tratto, tutto ci fu ritolto; e ci fu ritolto in un momento grave della vita nazionale, in un periodo di crisi quale mai fu attraversato dal teatro italiano. O vivere di ansie e di stenti, o disertare, per rifugiarsi su quella scena muta che non può dare soddisfazioni al nostro amor proprio, ma che ci offre un pane meno incerto e meno duro.
      «Dicono alcuni proprietari o conduttori di teatro: Non è manía di monopolio che ci guida, non è manía di accentramento in nostre mani della industria teatrale, e non è un'egemonia a nostro solo profitto che noi vogliamo creare. Ma è il desiderio e il bisogno di disciplinare l'esercizio di questa industria teatrale, disciplina dalla quale non possono derivar danni, ma, anzi, debbono scaturire maggiori fortune per l'arte.
      «E dicono, infine, altri proprietari o conduttori di teatro: Noi potremmo e vorremmo offrire condizioni contrattuali piú favorevoli ai capocomici, e non temeremmo la leale concorrenza fra teatro e teatro di una stessa città. Ma per ragioni troppo evidenti dobbiamo seguir la corrente, dobbiamo uniformarci alle disposizioni o ai consigli di chi ha in mano la maggior somma degli interessi teatrali, né possiamo agire se non con il consenso e per il tramite delle agenzie».


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573