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      Non basta: ha dimenticato di essere uomo, non riesce a concepire l'uomo. Il lavoratore meridionale (il lavoratore della terra) è quadrato, robusto, dalla voce profonda, musicale e vigorosa; il barone è degenerato fisicamente, è una decomposizione fisiologica oltre che una decomposizione sociale, è diverso dall'umanità laboriosa che lo circonda nel tipo fisico, nella voce, nel gestire, oltre che per la casta e la moralità.
      Francesco Campanozzi ha vigorosamente rappresentato uno di questi scemi nei tre atti che umilmente chiama di farsa. E certo non può esserci tragedia o dramma in uno di questi baroni, e i tre atti sono «storici»; non può esserci commozione profonda, conflitto interiore, urto di grandi passioni nobili o infami. Non può esserci alcuna cosa grande, nel bene o nel male, che sia inerente a umanità: è un balzellare fisico e un crepuscolo tremolante dello spirito e dell'intelligenza, un'inettitudine assoluta, all'azione e al pensiero che solo talvolta si scuote per un istinto confuso della famiglia. Il Campanozzi ha dato espressione plastica a questo mondo che tramonta; ne ha saputo fissare con esatta evidenza alcuni momenti essenziali, anche se il carattere (in senso artistico) centrale non gli è apparso che in uno sviluppo di insieme spesso forzato e scolorito, con antitesi crudamente meccaniche. U baruni di Carnalivari vive tuttavia, e non è spesso che nel teatro si vedano creazioni vive.
      (12 marzo 1919).
      «L'uccello del paradiso» di Cavacchioli al Carignano. Il teatro modernissimo italiano (Pirandello, Antonelli, di San Secondo, Veneziani.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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