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      (3 gennaio 1920).
      «La nostra ricchezza» di Gotta al Carignano. Dov'è la nostra ricchezza? È nell'attività industriale o nell'agricoltura, nelle speculazioni di borsa o nella coltivazione dei campi, nelle città o nella campagna?
      Siamo nel dopo guerra: il problema è, come usa dire, di attualità, non v'è studente che abbia masticato un po' di scienza economica e politica il quale non si senta in grado di farvi un discorso, con gli ingredienti di uso (le virtú e i vizi di oggi e di una volta, l'urbanesimo, il decentramento regionale, se occorre) la sua brava dissertazione. Salvator Gotta invece ha scritto una commedia; gli ingredienti però sono gli stessi, quelli di una dissertazione accademica di seconda mano. E quanto all'arte? Vediamo.
      Tre uomini: un nonno, un padre, un figlio. Il figlio è stato in guerra, volontario, e la guerra lo ha fatto diventare, cosí dice l'autore, socialista. Il padre è un industriale che si è arricchito con le forniture governative. Il nonno è un ricco campagnuolo, che ama la sua casa e la sua terra, che è legato dai piú tenaci vincoli d'affetto e di tradizione al suolo ch'egli coltiva, al podere che è per lui la sola, la vera ricchezza. Tra questi tre uomini dovrebbero sorgere il contrasto, la tensione drammatica e l'urto. E apparentemente sorgono. L'industriale specula, perde, vuol salvare la sua posizione e non vede di meglio che vendere la vecchia casa, liquidare il podere, trasformarlo in ciò che per lui è ricchezza, in denaro da lanciare nel giuoco e nel circolo degli affari cittadini.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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