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      Ti assicuro che sono stato sempre abbastanza bene e che ho in me delle energie fisiche che non sono facilmente esauribili, nonostante le apparenze di gracilità. Credi che non abbia voluto dir nulla l'aver sempre fatto una vita estremamente sobria e rigorosa? Me ne accorgo ora cosa ha voluto dire non aver mai avuto gravi malattie e non aver inferto all'organismo nessuna ferita decisiva; posso stancarmi orribilmente, è vero; ma un po' di riposo e di nutrimento mi fanno rapidamente riacquistare la normalità. Insomma non so cosa scriverti per farti stare calma e sana: dovrò ricorrere alle minaccie? Potrei non scriverti piú, sai, e far sentire anche a te cosa significa mancare completamente di notizie.
      Ti immagino seria e tetra, senza un sorriso neanche fuggevole. Vorrei farti rallegrare in qualche modo. Ti racconterò delle storielle; che te ne pare? Ti voglio, per esempio, come intermezzo alla descrizione del mio viaggio in questo mondo cosí grande e terribile, dire qualcosa intorno a me stesso e alla mia fama, di molto divertente. Io non sono conosciuto all'infuori di una cerchia abbastanza ristretta; il mio nome è storpiato perciò in tutti i modi piú inverosimili: Gramasci, Granusci, Grámisci, Granísci, Gramásci, fino a Garamáscon, con tutti gli intermedi piú bizzarri. A Palermo, durante una certa attesa per il controllo dei bagagli, incontrai in un deposito un gruppo di operai torinesi diretti al confino; insieme a loro era un formidabile tipo di anarchico ultra individualista, noto coll'indicazione di «Unico» che rifiuta di confidare a chiunque, ma specialmente alla polizia e alle autorità in generale, le sue generalità: «sono l'Unico e basta», ecco la sua risposta.


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Lettere dal carcere
di Antonio Gramsci
pagine 803

   





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