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      arte, la previsione di Farinata sull'esilio di Dante assorbí l'attenzione. A me pare che l'importanza della seconda parte consiste specialmente nel fatto che essa illumina il dramma di Cavalcante, dà tutti gli elementi essenziali perché il lettore lo riviva. Sarebbe perciò una poesia dell'ineffabile, dell'inespresso? Non credo. Dante non rinunzia a rappresentare il dramma direttamente, perché questo è appunto il suo modo di rappresentarlo. Si tratta di un «modo d'espressione» e penso che i «modi d'espressione» possono mutare nel tempo cosí come muta la lingua propriamente detta. (Solo il Bertoni crede di essere crociano rimettendo fuori la vecchia teoria delle parole belle e delle parole brutte come una novità linguistica dedotta dalla Estetica crociana).
      Ricordo che nel 1912 seguendo il corso del professor Toesca di Storia dell'Arte conobbi la riproduzione del quadro pompeiano in cui Medea assiste all'uccisione dei figli avuti da Giasone; assiste con gli occhi bendati e mi pare di ricordare che il Toesca dicesse che questo era un modo di esprimersi degli antichi e che il Lessing nel Laocoonte (cito a memoria da quelle lezioni) non riteneva ciò un artifizio da impotenti ma anzi il modo migliore di dare l'impressione dell'infinito dolore di un genitore, che rappresentato materialmente si sarebbe cristallizzato in una smorfia. La stessa espressione di Ugolino: «Poscia piú che il dolor poté il digiuno» appartiene a questo linguaggio e il popolo lo ha capito come un velo gettato sul padre che divora il figlio.


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Lettere dal carcere
di Antonio Gramsci
pagine 803

   





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