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      Una volta Genia mi raccontò che tu avevi creduto si fosse trattato di una mia invenzione, non molto spiritosa invero; ma non era per nulla una invenzione, era la verità, forse attenuata e addolcita, se ben ricordo. Perché poi avrei dovuto inventare una cosa cosí turpe? - Del resto, dopo aver appena parlato con lui, ebbi subito l'impressione del carattere dell'uomo, che non era da prendere sul serio e da considerare come alcunché di consistente. Devo dire anche che per un po' di tempo l'impressione avuta dal padre si estese meccanicamente sul figlio, e fu ingiustizia, come ebbi occasione di accorgermi quasi subito. Credo che Valentino tra breve debba ritornare a casa: forse ricorderai che egli ha una certa quantità di miei libri che mi dispiacerebbe di perdere, anche perché non so esattamente di quali libri si tratti, sebbene egli me ne abbia parlato a Roma. Te ne potrai occupare a suo tempo? - In tutto questo tempo non ho avuto nessun malessere acuto o semiacuto. Anzi, relativamente, mi pare di vivere abbastanza bene. È vero che sono sempre svogliato, ora molto nervoso, ora invece in preda allo snervamento e all'apatia; ma credo che questo stato di semiebetimento sia una forma di difesa dell'organismo psicopsichico contro il logorio permanente che si subisce in carcere a causa di tutte le piccole cose e i piccoli fastidi. Si finisce per diventare micromani (e forse io lo sono già diventato piú di quanto io stesso creda) a sentirsi limare continuamente i nervi da tante piccolezze e piccoli pensieri e piccole preoccupazioni.


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Lettere dal carcere
di Antonio Gramsci
pagine 803

   





Genia Valentino Roma