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      È difficile incominciare, ma proverò. Ecco. Ho saputo qualche tempo fa che parecchie donne, che avevano il marito in carcere, condannato a pene alte, si sono ritenute sciolte da ogni vincolo morale e hanno cercato di costruirsi una vita nuova. Il fatto è avvenuto (a quanto si riferisce) per iniziativa unilaterale. Può essere giudicato diversamente, da diversi punti di vista. Può essere biasimato, può essere spiegato e anche giustificato. Personalmente, dopo averci pensato su, io ho finito con lo spiegarlo e anche col giustificarlo. Ma se ciò avvenisse per accordo bilaterale, non sarebbe ancor piú giustificato? Naturalmente non voglio dire che sia una cosa semplice, che si possa fare senza dolore e senza contrasti profondamente laceranti. Ma, anche in queste condizioni, si può fare, se ci si persuade che si debba fare. In fondo, si rabbrividisce quando si pensa che in India le mogli dovevano morire quando moriva il marito, e non si pensa che il fatto si verifica, in forme meno immediatamente violente, anche nella nostra civiltà. Perché un essere vivo deve rimanere legato a un morto o quasi? Mi pare che quelli della generazione che si è consolidata moralmente prima della guerra, pensino con una vecchia mentalità in queste faccende, e che la generazione nuova, piú rapida nelle sue decisioni e meno ingombrata da sentimenti di una data specie, abbia ragione. Come dico, la cosa non è semplice, occorre uno strappo violento, una lacerazione dolorosa, occorre prevedere, dopo la decisione, un certo periodo di rimorsi, di pentimenti, una oscillazione, ma in fondo, si può prevedere che ciò può essere superato e che si può creare una vita nuova.


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Lettere dal carcere
di Antonio Gramsci
pagine 803

   





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