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      Non so se tutto questo ti diverta; io sono giunto al limite estremo della pazienza. Non so, e non mi pare, se tu ti sei accorta che molte cose sono cambiate in me radicalmente. Devo confessare il mio torto di aver lasciato che le cose si trascinassero cosí a lungo. Spero, tra breve, di essere maturo a sufficienza per porre un termine a tutte queste tiritere sconclusionate e senza senso comune. Ti prego di ricordare ciò che ti dissi a gennaio quando venisti a colloquio e di rileggere, se ancora le hai a portata di mano, le lettere che ti scrissi dopo di allora. Cosí ti persuaderai che non si tratta di un colpo di testa, ma della fase terminale di un lungo processo, fase necessaria, che solo una incredibile cecità ti ha impedito di prevedere e di apprezzare convenientemente. Sono immensamente stanco. Mi sento distaccato da tutto e da tutti. Ieri al colloquio ne ho avuto la riprova. Devo dirti che il colloquio mi pesava come un supplizio e che non vedevo l'ora che finisse. Voglio dirti la verità con tutta franchezza e brutalità, se la parola è piú adatta. Non ho niente da dirti e da dire a nessuno. Sono svuotato. L'ultimo tentativo di vita, l'ultimo sussulto di vita l'ho avuto in gennaio. Non hai capito. O non mi sono fatto capire, nelle condizioni in cui devo muovermi e parlare. Non c'è ora piú nulla da fare. Credi pure, se qualche altra volta ti capiterà nella vita di avere esperienza come quella che hai avuto con me, che il tempo è la cosa piú importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa.


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Lettere dal carcere
di Antonio Gramsci
pagine 803