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      I pochi si moltiplicano, disseminati nel grande spazio del mondo civile: impressionano gruppi e partiti. Avvengono oscillazioni d'opinione, finché tutto uno strato sociale, una classe, un ceto diffuso si eleva alla comprensione, fa propria un'idea. Si rivelano rapporti nuovi tra le ideologie e l'economia. Ceti produttivi che erano stati sacrificati, compressi, a benefizio dei ceti spadroneggianti, si rafforzano, diventano essi la piattaforma di un'orientazione politica nuova, si sviluppano, assorbono le attività e dànno consistenza a realtà nuove.
      Nel sommovimento ideale provocato dalla guerra due forze nuove si sono rivelate: il presidente Wilson, i massimalisti russi. Essi rappresentano l'estremo anello logico delle ideologie borghesi e proletarie.
      Il presidente Wilson riscuote in questi giorni le testimonianze di maggior simpatia. Egli è l'uomo del fatto compiuto. L'opera sua è stata di correzione, di integrazione di valori borghesi. Egli è un capo di Stato, dirige un organismo sociale preesistente alla guerra, che nella guerra si è rafforzato, si è meglio disciplinato.
      Eppure il riconoscimento della sua utilità ha tardato tre anni ad affermarsi. I suoi programmi sono stati derisi, egli è stato vituperato, è stato chiamato ipocrita, vacuo. Ora incomincia la revisione dei giudizi. Un bel libro di Daniele Halévy, che raccoglie i documenti del suo pensiero e della sua attività politica, dà occasione ad articoli elogiativi. Le qualità ieri negative ora diventano prova di solidità. Giovanni Papini (e la sua testimonianza ha valore, perché il Papini coi suoi capricci, colle sue disuguaglianze, col suo ingegno bizzarro, che produce acutissime e precorritrici verità cosí come banali infarciture di parole, è vicino al borghese medio italiano, è anticipatore dell'opinione media borghese italiana) due anni fa avrebbe chiamato Wilson uno «svizzero elettivo», un «castrato», un noioso predicatore, cosí come chiamò Romain Rolland, tanto vicino spiritualmente al presidente americano.


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Scritti politici
Prima parte
di Antonio Gramsci
pagine 279

   





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