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      La teoria sindacalista ha completamente fallito nell’esperienza concreta delle rivoluzioni proletarie. I sindacati hanno dimostrato la loro organica incapacità a incarnare la dittatura proletaria. Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo, la pratica «del pane e del burro». L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, da piccola e media borghesia. Eppure compito elementare del sindacato è quello di reclutare «tutta» la massa, è quello di assorbire nei suoi quadri tutti i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura. Il mezzo non è dunque idoneo al fine, e poiché il mezzo non è che un momento del fine che si realizza, che si fa, si deve concludere che il sindacalismo non è mezzo alla rivoluzione, non è un momento della rivoluzione proletaria, non è la rivoluzione che si realizza, che si fa: il sindacalismo non è rivoluzionario che per la possibilità grammaticale di accoppiare le due espressioni.
     
      Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro.


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Scritti politici
Seconda parte
di Antonio Gramsci
pagine 334