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      Tutto questo è spietato, ma nessun grido di dolore, di umanità potrà impedirlo. La legge della proprietà è piú forte d’ogni stentato sentimento di filantropia. L’affamamento dei poveri, di coloro che producono le ricchezze altrui, non è delitto nella società che riconosce come sacro ed inviolabile il principio della proprietà privata: che i padroni chiudano le fabbriche, riducano i salari agli operai, questo non è fuori della legge che regola la società capitalistica. Ma gli operai, i contadini devono anch’essi ragionare mettendosi da un simile punto di vista? O non hanno essi il dovere di fare un ragionamento opposto; di dire cioè che la crisi deve essere superata sacrificando chi l’ha prodotta, chi ne è la causa permanente? Certo gli operai e i contadini non possono e non debbono fare un ragionamento diverso. È vero che il mondo della produzione attraversa uno squilibrio indicibile: è vero che le industrie sono dissestate, che i padroni corrono molto rischio ad impiegare ora i loro capitali; ma, ripetiamo, che vuol dire ciò, se non la bancarotta, il fallimento dell’attuale sistema di produzione? Gli operai e i contadini vogliono rendersi conto della crisi e risolverla, ma non per rimettere in piedi il capitalismo, che li affama e li opprime col suo apparecchio di sfruttamento. Gli operai e i contadini devono ora lottare per la loro liberazione. La crisi che li ha gettati nelle braccia della fame non è delle solite che si verificano periodicamente nel mondo della produzione capitalistica.


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Scritti politici
Seconda parte
di Antonio Gramsci
pagine 334