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      (3 aprile 1917).
     
     
      LETTERATURA ITALICA: 1) LA PROSA
     
      In un paese dell'Ungheria. Max Nordau entra in una botteguccia del quartiere ebreo. Domanda un francobollo. Una donna, rivolta a uno che sta nel retrobottega, domanda nel gergo spagnolo degli ebrei balcanici: «Dove sono i francobolli?» Max Nordau domanda: «Parlate dunque spagnolo?» «No — risponde la donna — io parlo giudeo». Leggendo l'ultima lettera aperta di Stenterello Cesare Foà ai giornali, abbiamo capito l'intimo significato dell'aneddoto e della campagna che l'egregio avvocato Cesare Foà (via S. Massimo 44, cioè quartiere del ghetto, di felice memoria) conduce con furore rabbioso contro i tedeschi e contro l'imbastardimento della lingua di Dante.
      Abbiamo pubblicato un documento della prosa dantesca dell'avvocato italico; abbiamo ammirato la copiosa messe di solecismi, di idiotismi, di ellissi di soggetto, di verbo, di senso comune, che l'egregio riscosso italico (via S. Massimo 44) era riuscito a cogliere in appena quattro righe di cartolina illustrata. Ora comprendiamo. Se qualcuno si permetterà di domandare all'avvocato riscosso: «Dunque ella scrive italiano?», siamo sicuri che egli risponderà: «Italiano? Ma no, io scrivo la lingua di Dante». Strano destino quello dei figli d'Israele. Nella penisola balcanica non sanno di parlar spagnolo, ma conservando un briciolo almeno della loro dignità di stirpe, chiamano il loro gergo spagnolesco «giudeo». In Italia, essendosi italicizzati («noi latini, noi civili latini») e avendo trovato nell'antitedeschismo la bigoncia per le loro profezie («chi è stato austriaco lo sarà per omnia saecula saeculorum»), chiamano il loro gergo «lingua di Dante», con evidente confusione di Dante col Burchiello.


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Sotto la mole
1916-1920
di Antonio Gramsci
pagine 742

   





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