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      La censura allora permetteva di parlare della libertà cinese, ma non di quella italiana: una libertà lontana tante migliaia di chilometri non faceva spavento. Nei collegi gesuitici sarebbe stato severamente punito uno scolaro che in un componimento avesse parlato di repubblica, di ideali popolari, di diritti della plebe conculcati, ecc. ecc., ma quello stesso scolaro nei momenti di ricreazione poteva accordarsi coi suoi compagni e rappresentare, improvvisando, scene immaginarie della repubblica romana, in cui egli, romano antico, poteva coprire i tiranni di ogni contumelia, e poteva, con la voce tremante d'emozione, esaltare i plebei conculcati dagli odiati patrizi, ed eccitarli alla sommossa, al pronunciamento, alla secessione. La libertà era vista in lontananza, nel passato, e non sembrava pericolosa, anzi il tribuno piú focoso veniva premiato, magari con un esemplare delle opere di S. Ignazio.
      L'esteriorità tiranneggiava i tiranni. L'ordine, la disciplina erano voluti nella superficie, e dalla superficie si giudicava la gravità del disordine e della [in]disciplina. Si ricordano le persecuzioni cui andavano soggetti gli uomini barbuti. La barba era segno di sovversivismo come venti anni fa lo erano la cravatta rossa e il cappello a larghe falde. Come adesso lo è... la fascia sotto il gomito. Chi non issa la fascia ben alto e non la ferma con spilli, ma la lascia cadere floscia e stanca fin sull'orlo della manica, non può non essere un sovversivo, meglio ancora un disfattista.


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Sotto la mole
1916-1920
di Antonio Gramsci
pagine 742

   





S. Ignazio