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      Ma era evidentemente troppo tardi: le forze di cui disponeva la democrazia erano insufficienti. Verso la metà del 1922, il governo Facta tentò di ridurre gli effettivi dei carabinieri — che erano sotto il controllo diretto del ministro della guerra, l'agrario fascista principe Di Scalea — per farne passare la metà, circa 30.000, nella guardia regia, subordinata alla direzione generale di polizia, allora nelle mani dei giolittiani. Verso la metà d'ottobre il capo di stato maggiore, generale Badoglio, credeva ancora di poter affermare che il fascismo potesse essere liquidato in quindici giorni con i mezzi ordinari della polizia e dell'esercito.
      I giornali annunciarono per il 4 novembre (1922) un grande discorso di Gabriele D'Annunzio a Roma, di cui si diceva che avrebbe provocato, parallelamente all'azione dei generali giolittiani, un «movimento di folla». Ma i fascisti erano in grado di parare dal punto di vista sia politico che militare il colpo preparato. Essi riuscirono a ingannare persino Giolitti, al quale lasciarono credere che la crisi imminente poteva essere scongiurata mediante una soluzione parlamentare; si parlò di costituire un nuovo governo in cui non dovevano entrare che tre o quattro fascisti. Riuscirono egualmente a intimorire il re, a separarlo da Facta e da Giolitti e, approfittando della confusione provocata da queste manovre politiche, il 29 ottobre fecero marciare le loro truppe sulla capitale.
      La maggioranza parlamentare che era stata favorevole alla politica dei giolittiani contro il fascismo e persino, a rigore, alla formazione di un governo di sinistra, apertamente e decisamente antifascista, cadde subito in ginocchio davanti al manganello di Mussolini: gli accordò i pieni poteri che egli si era preso; incassò, senza batter ciglio, gli insulti dei trionfatori; non abbozzò neanche il minimo gesto di protesta contro i metodi d'intimidazione e di vendetta personali del nuovo governo.


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Sul fascismo
di Antonio Gramsci
pagine 418

   





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