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      Chi può leggere le sue satire sugli uomini e sulle donne di Roma senza provare un senso di ribrezzo? Chi può non compiangere un ingegno eletto come il suo, condannato a cercare le sue ispirazioni in quel pantano della società romana dei suoi tempi? Facit indignatio versum, qualemcunque potest.
      Giovenale fu paragonato (e con qualche verità) a Tacito, il suo più grande e più nobile contemporaneo; ma lo storico di quell'epoca aveva almeno la coscienza di chiamare il dispotismo davanti ad un tribunale supremo, sempre pronto a pronunciare le sue sentenze. Ma che cosa può confortare il poeta satirico, il pittore della impudicizia[331] nel ribrezzo che deve provare a descrivere la generale corruzione dei suoi tempi? Eppure, quanto non è superiore un Giovenale ai romanzieri ed ai drammaturghi dei tempi nostri, più lascivi, ma più deboli di Petronio, i quali descrivono il vizio coi colori più dolci e sentimentali e ci dipingono vili meretrici come tipi ideali?
      Teniamoci fortunati noi tedeschi, almeno per ciò che non possediamo nella nostra letteratura un Giovenale, nè un Sue o un Dumas, ma possiamo porre ancora corone non contaminate sul capo di Schiller, il poeta generoso della libertà e dell'ideale umano.
      Ambedue quei romani, Giovenale e Tacito, lamentarono la perduta libertà repubblicana; ambedue disperarono dell'avvenire che non appariva loro diverso da un abisso, e Giovenale ancora più di Tacito. E di fronte ad essi già sorgeva, da loro conosciuto, ma non compreso, anzi disprezzato quale setta giudaica, il cristianesimo, ideale tuttora velato di una umanità ringiovanita.


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Passeggiate per l'Italia
Volume Primo
di Ferdinand Gregorovius
Carboni Editore Roma
1906 pagine 270

   





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