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      Marco abbassato il capo sul petto seguitò la sua via, finchè a traverso le piante gli si scopersero le torri del castello di Rosate, che era (come sappiamo) un suo feudo. Vide svolazzare il pennone quadrato, distintivo dei cavalieri banderesi, vide l'elmo col biscione inalberato in vetta al più alto torrazzo, giunse sul ciglio della fossa che girava intorno alle mura merlate, battè tre volte coll'elsa della spada il pomo ferrato dell'arcione, fu calato il ponte levatoio e lo passò.
      All'entrar ch'ei fece nel secondo cortile incontrò il castellano, il quale corse per tenergli la staffa. Era questi il Pelagrua, quel procuratore del monastero di Sant'Ambrogio che era stato cacciato da Limonta, e che Marco, come s'è accennato altra volta, avea collocato quivi, ed eletto poi dopo suo castellano. Costui non ebbe tempo di prestare l'uffizio per cui s'era affrettato, che Marco balzando in terra d'un salto, gli avea lasciate nelle mani le briglie del cavallo, ordinandogli di tener segreto il suo arrivo.
      Dal turbamento del volto, dal disordine di tutta la persona del padrone, dallo stato compassionevole della bestia, il furbo cavò strani sospetti, tutti però lontani le mille miglia dal vero.
     
     
     
      CAPITOLO XV
     
      Tornata nel suo sentimento; Bice trovossi adagiata s'un letto in una camera sconosciuta, e domandava ad un'ancella che si vedeva a lato, dove fosse suo padre; ma in quella avendo raffigurato lui medesimo che la stava guardando dall'altro canto, si levò a sedere, poi balzò in piedi, e stringendosi a un braccio di lui: - Usciamo di qui, - gli diceva, - andiamo, andiamocene tosto.


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Marco Visconti - Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi
di Tommaso Grossi
Vallardi Editore Milano
1958 pagine 484

   





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