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      Quest'ultimo, lasciato il suo signore all'estremità della lizza che finiva col bosco, attraversò lo steccato per portare alla tenda dei giudici, piantata al lato opposto, quello scudo coperto. I giudici avean sagramento di non rivelar mai per caso nessuno il segreto di chi voleva combatter nascosto, ma dovean per legge riconoscere le sue armi, e pronunziare s'ei meritava l'onore d'essere accettato a misurarsi coi cavalieri tenitori.
      Intanto erasi destata fra la moltitudine una gioia inquieta e curiosa che si manifestava da per tutto con un lungo bisbiglio.
      Come lo scudiere fu entrato nella tenda dei giudici, il bisbiglio cessò, e fu dappertutto un silenzio pieno d'aspettazione.
      Pochi momenti dopo i giudici usciron col palvese dello sconosciuto, che avean rivolto nello zendado come prima: lo posero in cima a un'asta, che conficcarono in terra, vi piegarono dinanzi un ginocchio, indi fecer segno ad un araldo, il quale gridò:
      - È libero il campo al cavaliere. -
      Allora l'ignoto, cui ne veniva data la balìa, attraversò esso pure a lento passo tutto lo steccato, fino alla tenda dei tenitori, e, fermatosi dinanzi allo scudo di Ottorino, invece di toccarlo colla lancia, come usavasi, lo strappò dal luogo in cui era posto, gettandolo per terra; poi ve lo tornò ad appiccare, ma col capo in giù, il che era il più grande oltraggio che potesse farsi a cavaliere, e importava una disfida a tutto transito, o, come noi diremmo, all'ultimo sangue.
      Si levò un rumor vario tra la folla che era stata attenta a quegli atti, e ben sapea che cosa importassero.


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Marco Visconti - Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi
di Tommaso Grossi
Vallardi Editore Milano
1958 pagine 484

   





Ottorino