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      Paolo, bollente di sdegno, si riduce a Firenze per avvisarne Lorenzo; e questi, ne' suoi privati interessi mescolando la patria, fa decretare si rimetta ad ogni costo l'Inghirami nel possesso della miniera; i giudici che ardiscono amministrare la giustizia a suo danno s'imprigionino: Rafaello Corbinello, capitano di Volterra, provveda onde abbia forza il decreto. Paolo torna in Volterra, percorrendo le strade con accompagnatura di Côrsi armati, in sembianza e più nei modi tiranno. Il popolo, che in moltissime cose si assomiglia al bove, lo assomiglia anche in questa, che, quando è quieto, un sol fanciullo lo mena, ma quando monta in furore, cento uomini lo fuggono. Al popolo dunque un giorno scappò la pazienza; - l'accompagnatura dei Côrsi disparve, distesa appena una delle sue mille mani; - Paolo e i suoi aderenti, costretti a salvarsi, riparano nel palazzo del capitano. L'autorità e la paura di pena remota mal giovano contro a furore presente: a malgrado le dimostranze, cadono spezzate le porte; il popolo irrompe; Romeo Barbetani, che primo si oppone, riduce in pezzi, - gli altri ristretti in cima della torre collo zolfo e col bitume soffoca, - poi ne strascina per le strade i cadaveri, miserabile trofeo di cittadina discordia.
      Lorenzo dichiarò la maestà del fiorentino popolo offesa per cotesta strage, pernicioso l'esempio dove si lasciasse impunita. I priori gli ebbero fede o s'infinsero, chè ormai in lui di tiranno era tutto, tranne la corona, superflua eppure ambita insegna di potenza.


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L'Assedio di Firenze
di Francesco Domenico Guerrazzi
Libreria Dante Alighieri Milano
1869 pagine 1163

   





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