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      Ma invece del margine del pozzo si morde miseramente la lingua, il sangue nero gli goccia giù in copia dagli angoli delle labbra e gì'insordida la barba.
      Improvvido di consiglio, si volge attorno esterrefatto, ed altra via di salute non gli si offre, tranne la catena rovente.
      Vi si aggrappa con le mani e co' piedi; - la catena si distende con orribile cigolio; - la lancetta del quadrante divora lo spazio che la separa dall'ora con la velocità del cavallo sfrenato, - la squilla suona.
      Si aperse la terra, - l'anfiteatro cadde disfatto, - le statue l'una sopra l'altra rovesciaronsi, precipitarono le stelle dal firmamento, - ogni cosa creata si sformò, e un gemito lungo si diffuse per la natura moribonda che diceva: - "È arrivata l'eternità."
      Malatesta si drizzò sul letto e urlò disperato:
      La eterna dannazione incomincia!
      E poi ricadde sfinito, - gli venne meno l'anelito, - prostese le braccia - e con un roco singulto declinò la testa.
      Il frate confessore gli pose una mano sul petto e favellò sommesso:
      È passato.
      I circostanti, compresi da ribrezzo, abbandonarono la stanza. Non avvertito vi rimase Cencio Guercio.
      Accovacciato come un cane, egli stette assai tempo immemore di sè, profondamente avvilito sotto il peso della paura e del rimorso. Alfine rinvenne e pensò al miserabile suo stato: se si fermava, lo avrebbe manomesso Ridolfo Leone che gli portava mal di morte, riputandolo istigatore dei misfatti paterni; se invece usciva dal castello, lo avrebbero messo in pezzi gli aderenti del cardinale Ippolito.


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L'Assedio di Firenze
di Francesco Domenico Guerrazzi
Libreria Dante Alighieri Milano
1869 pagine 1163

   





Cencio Guercio Ridolfo Leone Ippolito