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      La cagione per la quale s'era recato costà, fu, che quinci poteva andarsene in poco tempo a Parma, dove predicava la fama dovesse passare l'esercito di Carlo. Il nostro eroe, in proporzione che si avvicinava, sentiva una repugnanza, un affanno di farsi oltre, per modo che ogni giorno più rallentasse il cammino. Quella voce di traditore sovente gli suonava all'orecchio, come urlo di spavento; le parole di Ghino ancora lo turbavano fortemente; pensava tra sè: – con alto proponimento di superare i pericoli della terra e del cielo, di vendicare il genitore, di riacquistare quello che per nera perfidia mi venne tolto, mi sono messo da lungi a sostenere fatiche, sotto le quali la più parte degli uomini avrebbe piegato; stimava conseguire grandezza, e la mia speranza mi si rivolse non pure in vanità, ma in infamia. – Ecco l'angoscia dell'anima condannata a sentire grandemente, e non trovare negli oggetti esterni che imbecillità, o delitto! Ghino, al quale aveva salvato la vita, e che per la sua condizione doveva necessariamente seguitare precetti poco scrupolosi di onesto, lo aveva compianto; che cosa avrebbero fatto coloro che non gli andavano in nulla obbligati, e che facevano professione di amare la patria, e praticare gli ammaestramenti dell'onesto? Un insopportabile peso gli gravava sul cuore. Così cento volte sellando il cavallo, ed altrettante riponendolo in istalla, si trattenne due giorni alla Mirandola. Chiuso nella sua camera, con la fronte appoggiata alle ginocchia, si lamentava del suo fiero destino; e poichè quando se ne ha bisogno, buoni o cattivi, tutti ci raccomandiamo a Dio, sovente implorava il Cielo, che di consiglio lo sovvenisse.


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La battaglia di Benevento
Storia del secolo XIII
di Francesco Domenico Guerrazzi
Le Monnier Firenze
1852 pagine 699

   





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